IL POLISTIROLO 1970

Da una intervista del 1972 di Italo Mussa: “…Sono interessata innanzitutto al materiale in quanto materiale di scarto, in quanto rifiuto. L'assunzione di ciò che sta per scomparire definitivamente dalla nostra scena quotidiana ha di per sé già un significato preciso di riciclaggio in grado di imprimere una inversione di marcia al processo inesorabile che trasforma gli oggetti di consumo in oggetti di rifiuto. In secondo luogo, sono interessata alla forma del materiale. Il polistirolo è assunto nelle forme dei contenitori, una volta che i contenuti sono stati asportati. Queste forme vuote che rappresentano per me uno stimolo, una provocazione mentale e sensoriale, aprono il secondo momento del procedimento operativo: quello del collage. Mi interessano le immagini attinte dai mezzi di comunicazione di massa e prelevati a mezzo del ritaglio prima che questi materiali finiscano nei rifiuti. Si crea così un rapporto, una interazione tra le immagini e le forme cave del polistirolo: l'opera conclusa è appunto il risultato di una serie progressiva di aggiustamenti e di equilibri tra i due termini che entrano nel gioco compositivo. Per quanto riguarda la relazione tra immagine e oggetto tendo a creare una serie variabile di combinazioni, che tuttavia possono essere riportate ad alcune costanti: una di queste è costituita dalla frontalità dell'immagine che si accampa in tutta la sua forza comunicativa in un rapporto-contrasto con le forme preesistenti; in altri casi, tende piuttosto alla cancellazione: le immagini appaiono nelle forme cave del polistirolo secondo un principio di lateralità, nel senso che esse sono colte, nel momento in cui stanno per scomparire dal nostro campo visivo. Il tema della cancellazione, della deprivazione di senso mi interessa molto: devo aggiungere che il senso di questa operazione mi è ora più chiaro dopo l'intervento di Ermanno Migliorini che nella prefazione al catalogo della mia mostra all'Obelisco (1974) ha chiarito in maniera estremamente precisa questo punto, accordandolo inoltre con la fase successiva del mio lavoro, quello della scrittura”.

 

Cercare frugare, dentro e fuori di me, in terra e nella memoria, cose tangibili e astratte, vicine e lontane. Ho sempre cercato il coinvolgimento con le cose, con le persone, con tutto quello che mi circondava. Quando lavoravo con il polistirolo si era formato, attraverso al candore dell'oggetto, una catena emozionale. Trovavo il polistirolo dovunque o me lo trovavano gli altri lasciandomelo sotto casa, sull'auto: alcuni amici mi scrissero perfino dall'America dicendomi che quando s'imbattevano nei contenitori di polistirolo pensavano a me ed al mio lavoro. Il polistirolo era diventato un anello di una grande catena, un segno che richiamava altri segni. L'inserimento delle immagini (ritagli di riviste o altro) coinvolgeva il polistirolo in un discorso più complesso: di contestazione del mondo, o, meglio, di tutto ciò che nel mondo non mi sembrava e non mi sembra si potesse accettare: la condizione della donna, la distruzione della natura, l'alienazione del mondo del

 lavoro. Il passaggio dall'immagine alla scrittura è stato graduale, quasi una trasformazione o una crescita naturale. In due opere del '72, Attesa e Silenzio, ho introdotto la parola per sottolineare il significato di un'immagine di donna rappresentata, nella prima opera, da un volto collocato dietro una finestra-prigione e, nella seconda, ancora di un volto privo della bocca. In attesa la parola  dilatandosi nello spazio, sembrava uscire fuori dal supporto, perdere il suo significato immediato per acquistarne un altro che coinvolgesse fattori mentali e sensoriali. Nell'altra opera, la parola silenzio era ripetuta due, quattro, sei volte con una iterazione ossessiva, come un ammonimento ripetuto per secoli.

In una fase successiva, nella serie dei Paesaggi, le parole si accompagnavano ai segni iconici, fino a diventare essi stessi immagini , come nell'opera Mare. Ho continuato a lavorare in questa direzione riducendo progressivamente la componente semantica della scrittura, riconducendo le parole a segni, soprattutto nella serie Scrivere non è descrivere. Spesso trascrivevo le notizie più sconcertantii riportate dai giornali, le traducevo nella mia scrittura, per restituire ad esse un altro significato. Del resto, quante le notizie che leggiamo senza veramente leggerle? Quanti i messaggi dimenticati nel giro di pochi secondi? Che valore ha la parola scritta o pronunziata oralmente se non lascia dei segni? Ancora una volta lavoravo sul piano della contestazione, questa volta del messaggio scritto; ma ancora una volta alla ricerca di un messaggio diverso, che agisse in noi a livello profondo.

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